giovedì 7 giugno 2012

Lo strano caso di Benjamin Button

Vi faccio un regalo. Vi regalo uno dei racconti contenuti in "Storie dell'età del jazz" di Francis Scott Fitzgerald. Probabilmente lo conoscete già, perché è a questo racconto che si sono ispirati per il film "Il curioso caso di Benjamin Button", quello con Brad Pitt, anche se, come vedrete, nel film hanno rimaneggiato parecchio la storia. Ma il concetto resta quello: come sarebbe la vita se si potesse viverla al contrario, partendo da vecchi e ringiovanendo via via fino a diventare bambini? Fitzgerald cerca di risolvere questo interrogativo, già proposto tempo prima da Mark Twain. Ci è riuscito? Secondo me sì... buona lettura e... se scoprite che Fitzgerald vi piace moltissimo e decidete di non poter fare a meno degli altri racconti, ecco dove potete trovarli!

Lo strano caso di Benjamin Button

I


Fin verso il 1860 era decenza nascere in casa. Attualmente, così mi dicono, gli alti dei della medicina hanno stabilito che i primi pianti del giovane debbano essere emessi nell'aria anestetica di un ospedale, preferibilmente alla moda. Perciò i giovani signor e signora Roger Button anticiparono di cinquant'anni la moda quando decisero, un giorno d'estate del 1860, che il loro primo figlio nascesse in ospedale. Non si saprà mai se questo anacronismo ebbe qualche effetto sulla storia sorprendente che sto per narrarvi.
Io vi dico cos'è successo, e poi giudicherete voi.
I Roger Button avevano una posizione invidiabile, sia sociale che economica, nella Baltimora di prima della guerra. Erano imparentati con la famiglia Tale e la famiglia Talaltra il che, come ogni Sudista sapeva, dava loro pieno diritto di far parte di quella enorme nobiltà che largamente popolava gli stati Confederati. Questa era la loro prima esperienza con quell'affascinante, vecchia usanza d'avere bambini. Naturalmente il signor Button era nervoso. Sperava che fosse un maschio, così avrebbe potuto mandarlo al college di Yale, nel Connecticut, nel quale istituto lo stesso Mr Button era stato noto per quattro anni col soprannome in un certo senso ovvio di “Polsino”*.
Il mattino di settembre consacrato a quell'enorme evento, lui si alzò nervosamente alle sei, si vestì, prese un bastone impeccabile e si affrettò per le vie di Baltimora, diretto all'ospedale, per stabilire se l'oscurità della notte avesse portato in seno nuova vita.
Quando fu a circa cento iarde di distanza dall'Ospedale Privato Maryland per Signore e Gentiluomini, vide il dottor Keene, il medico di famiglia, che scendeva dai gradini d'ingresso fregandosi le mani come se se le stesse lavando, dal momento che a tutti i dottori è richiesto farlo per non scritte leggi etiche della loro professione.
Mr Roger Button, presidente della Roger Button & Co., Grossisti in Ferramenta, cominciò a correre verso il dottor Keene con molta meno dignità di quanta ci si aspettasse da un gentiluomo del Sud di quell'epoca pittoresca.
“Dottor Keene!”, chiamò, “Oh, dottor Keene!”
Il dottore lo sentì, si voltò e si fermò ad aspettarlo, con un'espressione curiosa che gli si dipinse sul volto austero e dottorale quando Mr Button si avvicinò.
“Cos'è successo?”, domandò ansante Mr Button avvicinandosi di corsa, “Che è stato? Lei come sta? È un maschio? Chi è? Che cosa...”
“Cercate di dire qualcosa di sensato”, disse secco il dottor Keene. Sembrava alquanto irritato.
“Il bambino è nato?”, chiese Mr Button.
Il dottor Keene si accigliò. “Be', sì, immagino che... in un certo senso...”, e di nuovo lanciò a Mr Button una strana occhiata.
“Mia moglie sta bene?”
“Sì.”
“È un bambino o una bambina?”
“Piantatela!”, esclamò il dottor Keene in uno scatto di assoluta irritazione, “Andate a vederlo voi stesso. Che oltraggio!”, ringhiò l'ultima parola quasi in un'unica sillaba, poi si allontanò borbottando: “Credete che un caso come questo mi sia d'aiuto nella mia carriera professionale? Ancora un altro e mi rovinerebbe... rovinerebbe chiunque.”
“Qual è il problema?”, chiese atterrito Mr Button, “Sono tre gemelli?”
“No, no, nessun gemello!”, rispose sarcastico il dottore, “Andate a vedere voi stesso. E trovatevi un altro medico. Io vi ho fatto venire al mondo, giovanotto, e sono il vostro medico di famiglia da quarant'anni, ma ne ho abbastanza di voi! Non voglio mai più vedere né voi né nessun altro dei vostri parenti. Addio!”
Poi si voltò brusco e senza aggiungere altro si arrampicò sul phaeton che lo attendeva sul cordolo e se ne andò, severo.
Mr Button rimase sul marciapiedi, stupefatto e tremante da capo a piedi. Che orribile disgrazia era avvenuta? Improvvisamente aveva perso ogni desiderio di entrare nell'Ospedale Privato Maryland per Signore e Gentiluomini... fu con grandissime difficoltà che, un istante dopo, si costrinse a salire gli scalini e varcarne la soglia.
Un'infermiera sedeva dietro un bancone nell'opaca oscurità dell'ingresso. Inghiottendo la propria vergogna, Mr Button le si avvicinò.
“Buongiorno”, disse lei guardandolo sorridente.
“Buongiorno. I... io s... sono Mr Button.”
A quelle parole un'espressione di assoluto terrore riempì il volto della ragazza. Balzò in piedi e sembrò sul punto di voler scappare dalla stanza, trattenendosi solo con evidenti difficoltà.
“Voglio vedere il mio bambino”, disse Mr Button.
L'infermiera lanciò un urletto. “Oh... ma certo!”, strillò isterica, “Al piano di sopra. Su, al piano di sopra. Andate... di sopra!”
Indicò la direzione e Mr Button, madido di freddo sudore, si voltò vacillante e cominciò l'ascesa al secondo piano. Nell'accettazione superiore si rivolse a un'altra infermiera che lo avvicinò con un catino in mano. “Sono Mr Button”, riuscì a formulare, “Voglio vedere il mio...”
Clang! Il catino cadde in terra e rotolò verso le scale. Clang! Clang! Cominciò a scenderle metodicamente come se prendesse parte al terrore generale che quel signore provocava.
“Voglio vedere il mio bambino!”, disse Mr Button quasi strillando. Era sul punto di avere un collasso.
Clang! Il catino raggiunse il primo piano. L'infermiera recuperò l'autocontrollo e lanciò a Mr Button uno sguardo di sincero disprezzo.
“D'accordo, Mr Button”, disse a bassa voce, “Va bene! Ma se voi solo sapeste in che stato ci ha messi per tutta la mattina... è assolutamente oltraggioso! L'ospedale non avrà mai più un briciolo di reputazione dopo che...”
“Spicciatevi!”, strillò lui rauco, “Non lo sopporto più!”
“Bene, Mr Button, venite da questa parte.”
Lui le si trascinò dietro. In fondo a un lungo corridoio raggiunsero una stanza dalla quale proveniva una serie di ululati, anzi, una stanza che, parlando con un linguaggio più moderno, sarebbe stata definita una “stanza del pianto”. Entrarono.
“Bene”, boccheggiò Mr Button, “Qual è il mio?”
“Quello!”, disse l'infermiera.
Mr Button seguì con gli occhi il dito indicatore ed ecco cosa vide. Avvolto in una voluminosa coperta bianca, e in parte pigiato in una delle culle, sedeva un vecchio dall'apparente età di settant'anni. I radi capelli erano quasi tutti bianchi, dal mento gli pendeva una lunga barba color grigio fumo che si agitava assurdamente su e giù, smossa dalla brezza che entrava dalla finestra. Alzò lo sguardo verso Mr Button e nei suoi occhi spenti e appannati sembrò aleggiare una domanda confusa.
“Sono pazzo?”, tuonò Mr Button quando il suo terrore si evolse in rabbia, “Forse questo è un orribile scherzo da ospedale?”
“A noi non sembra affatto uno scherzo”, replicò severa l'infermiera, “E non so se siete pazzo oppure no, ma quello è di sicuro il vostro bambino.”
Il sudore freddo raddoppiò sulla fronte di Mr Button. Chiuse gli occhi e poi, riaprendoli, guardò di nuovo. Non poteva sbagliarsi... stava guardando un uomo di settant'anni... un neonato di settant'anni, un neonato i cui piedi penzolavano ai lati della culla nella quale riposava.
Il vecchio guardò placido l'uno e l'altra per un momento, e poi improvvisamente parlò con voce rotta, da vecchio: “Tu sei mio padre?”, domandò.
Mr Button e l'infermiera sobbalzarono violentemente.
“Perché se lo sei”, proseguì piagnucoloso il vecchio, “vorrei che mi portassi fuori di qui... o perlomeno che mi mettessi in una culla più comoda di questa.”
“In nome di Dio, da dove vieni? Chi sei?”, scoppiò turbato Mr Button.
“Non so dirti esattamente chi sono”, replicò quel piagnucolio lamentoso, “perché sono nato solo da poche ore... ma sicuramente di cognome faccio Button.”
“Menti! Sei un impostore!”
Il vecchio si rivolse stancamente all'infermiera. “Bel modo di accogliere un bambino appena nato”, si lagnò con voce debole, “Digli che si sbaglia. Perché non lo fai?”
“Vi sbagliate, Mr Button”, disse severa l'infermiera, “Questo è il vostro bambino, dovete farvene una ragione. Dobbiamo chiedervi di portarvelo a casa il prima possibile... diciamo oggi stesso.”
“A casa?”, ripeté Mr Button incredulo.
“Sì, noi non possiamo tenerlo qui. Davvero, non possiamo.”
“Ne sono felice”, piagnucolò il vecchio, “Bel posto, questo, per tenerci un giovane dai gusti tranquilli. Con tutti questi pianti e strepiti non sono riuscito a chiudere occhio. Avevo chiesto qualcosa da mangiare”, e qui la sua voce si alzò fino a un'acuta protesta, “e mi hanno portato un biberon di latte!”
Mr Button crollò su una sedia accanto al figlio e si nascose il volto tra le mani. “Mio Dio!”, mormorò in un fremito di terrore, “Che dirà la gente? Che devo fare?”
“Dovete portarvelo a casa”, insistette l'infermiera, “immediatamente!”
Un'immagine grottesca prese forma con spaventosa chiarezza nella mente di quell'uomo tormentato... l'immagine di lui che camminava per le strade affollate della città con quella spaventosa apparizione che gli passeggiava di fianco.
“Non posso. Non posso”, gemette.
La gente si sarebbe fermata a parlargli, e lui che avrebbe dovuto dire? Avrebbe dovuto presentare quel... quel... settantenne: “Questo è mio figlio, nato stamattina presto.” e poi il vecchio si sarebbe raccolto attorno la coperta bianca e avrebbe continuato ad arrancare, oltre i negozi pieni di confusione, oltre il mercato degli schiavi (e per un fosco istante Mr Button desiderò ardentemente che suo figlio fosse nero), oltre le case lussuose del distretto residenziale, oltre l'ospizio per vecchi...
“Avanti! Tornate in voi!”, ordinò l'infermiera.
“Un attimo”, annunciò improvvisamente il vecchio, “se pensate che me ne voglia andare a casa con addosso questa coperta, vi sbagliate di grosso.”
“I neonati hanno sempre una coperta.”
Con sguardo maligno, il vecchio tirò su un abitino bianco da neonati. “Guarda!”, disse con voce tremula, “Questo è quel che mi avevano preparato.”
“È quel che indossano sempre i neonati”, disse sostenuta l'infermiera.
“Be'”, disse il vecchio, “questo neonato fra due minuti non indosserà più nulla. E poi la coperta pizzica. Potevano darmi almeno un lenzuolo.”
“Tientela su! Tientela su!”, disse con foga Mr Button. Si rivolse all'infermiera: “Che devo fare?”
“Andate in città e comprate dei vestiti per vostro figlio.”
La voce del figlio seguì Mr Button fino all'ingresso: “E un bastone da passeggio, papà. Voglio un bastone da passeggio.”
Mr Button sbatté con furia la porta d'ingresso...

----- NOTE -----
* Polsino:
“Button” vuol dire “bottone”, NDT

II

“Buongiorno”, disse nervoso Mr Button al commesso del Chesapeake Abbigliamento, “Voglio comprare dei vestiti per mio figlio.”
“Quanti anni ha vostro figlio?”
“Sei ore”, rispose Mr Button senza riflettere bene.
“Il settore neonati è sul retro.”
“Be', ma non credo... non penso che lì ci sia quel che mi occorre. Vedete, è un... bambino insolitamente grande. Straordinariamente... grosso, sì.”
“Lì hanno tutte le taglie per neonati.”
“Dov'è il reparto per ragazzi?”, domandò Mr Button cambiando disperatamente posizioni. Sentiva che il commesso stava certamente fiutando il suo vergognoso segreto.
“Proprio qui.”
“Be'...”, esitò. L'idea di vestire il figlio con abiti da adulto lo ripugnava. Se per esempio fosse riuscito a trovare un completo da ragazzo molto grande, avrebbe potuto tagliare quell'orribile barba, tingere i capelli bianchi di marrone e così avrebbe potuto nascondere il peggio e conservare un po' di autostima, per non parlare della sua posizione nella società di Baltimora.
Ma una convulsa ispezione del reparto ragazzi non portò alla luce nessun completo adatto al neonato Button. Ovviamente se la prese col negozio... in questi casi l'unica cosa da fare è prendersela col negozio.
“Quanti anni avete detto che ha vostro figlio?”, domandò curioso il commesso.
“Ha... ha sedici anni.”
“Oh, vi domando scusa. Pensavo aveste detto sei ore. Il reparto per giovani è nell'altra corsia.”
Mr Button si allontanò mestamente. Poi si fermò, s'illuminò e puntò il dito verso un manichino vestito esposto in vetrina.
“Quello!”, esclamò, “Prendo quel completo, quello là fuori sul manichino.”
Il commesso lo fissò. “Ma”, protestò, “quello non è un completo per un ragazzino. O meglio, è da ragazzino ma è un costume per una festa in maschera. Qualcosa che potreste indossare voi!”
“Incartatemelo”, insistette il suo nervoso cliente, “È quello che voglio.”
Lo stupito commesso ubbidì.
Tornato in ospedale, Mr Button entrò nella nursery e quasi gettò il pacco al figlio. “Eccoti i vestiti”, ringhiò.
Il vecchio disfece il pacco e ne osservò il contenuto con occhi beffardi.
“Mi sembrano ridicoli”, si lamentò, “Non voglio che la gente si prenda gioco di me...”
“Sei tu che ti prendi gioco di me!”, ribatté Mr Button infuriato, “Non pensare a quanto sarai ridicolo. Mettiteli altrimenti... altrimenti io... ti sculaccio”, deglutì imbarazzato nel pronunciare l'ultima parola, ma nonostante ciò sapeva che era quella giusta da dire.
“D'accordo, papà”, disse il vecchio con una grottesca simulazione di rispetto filiale, “tu sei più grande. Tu sai cos'è meglio. Farò come dici.”
“E spicciati.”
“Mi sto spicciando, papà.”
Quando suo figlio fu vestito Mr Button l'osservò, depresso. Il costume consisteva in calze a pois, pantaloni rosa e una blusa con una cintura e un ampio colletto bianco. Su quest'ultimo sventolava la lunga barba canuta che arrivava quasi fino alla vita. L'effetto non era bello.
“Aspetta!”
Mr Button afferrò un paio di forbici dell'ospedale e con tre rapidi colpi amputò una grande porzione di barba. Ma anche con questa miglioria l'effetto globale era ben lungi dall'essere perfetto. Il rimanente cespuglio di barba ispida, gli occhi acquosi, i denti malandati sembravano straordinariamente in contrasto con la gaiezza del costume. Mr Button, però, era caparbio. Tese la mano. “Andiamo!”, disse severo.
Suo figlio gli prese la mano, fiducioso. “Come mi chiamerai, papà?”, domandò con voce tremula quando uscirono dalla nursery, “Solo 'bambino' per un po'? Finché non trovi un nome migliore?”
Mr Button grugnì. “Non lo so”, rispose brusco, “Forse ti chiamerò Matusalemme.”

III

Perfino dopo che al nuovo arrivato in casa Button i capelli vennero tagliati corti e poi tinti con un nero disomogeneo e innaturale, e il volto gli venne rasato al punto da risplendere, e venne abbigliato con vestiti da bambino fatti fare da un sarto esterrefatto, fu impossibile per Button ignorare il fatto che suo figlio fosse molto poco credibile come bimbo di una famiglia importante. Nonostante la postura curva, da anziano, Benjamin Button -perché fu questo, poi, il nome che gli diedero, invece del più appropriato ma ingiusto Matusalemme- era alto cinque piedi e otto pollici*. Questo i vestiti non riuscivano a nasconderlo, né l'avergli accorciato e tinto le sopracciglia nascondeva il fatto che gli occhi, sotto, erano spenti, acquosi e stanchi. Di fatto la balia che era stata assunta in precedennza abbandonò la casa, con considerevole indignazione, dopo avergli dato una sola occhiata.
Ma Mr Button proseguì col suo irremovibile proposito. Benjamin era un neonato, e un neonato sarebbe rimasto. All'inizio dichiarò che se a Benjamin non piaceva il latte caldo, allora poteva fare del tutto a meno del cibo, ma alla fine riuscirono a convincerlo a concedere al figlio pane e burro, e perfino della farinata d'avena come compromesso. Un giorno portò a casa un sonaglio e, dandolo a Benjamin, insistette con termini decisi che lui “ci giocasse”, al che il vecchio, con espressione stanca, lo prese, e ogni tanto, durante il giorno, lo si poteva sentire agitarlo ubbidiente.
Però indubbiamente il sonaglio lo annoiava, e quando rimase solo scoprì divertimenti più appaganti. Per esempio, un giorno Mr Button scoprì di aver fumato molti più sigari del solito durante la settimana precedente; un fenomeno che si chiarì qualche giorno dopo quando, entrando improvvisamente nella nursery, vide che la stanza era piena di un lieve fumo azzurrino e che Benjamin, con un'espressione colpevole in volto, cercava di nascondere il mozzicone di un Avana bruno. Naturalmente una cosa del genere richiedeva una severa sculacciata, ma Mr Button scoprì che non riusciva a farsi forza ed elargirgliela. Si limitò ad ammonire il figlio dicendogli che gli avrebbe “bloccato lo sviluppo”.
Nonostante ciò il suo atteggiamento persistette. Portò a casa soldatini di piombo, portò trenini giocattolo, portò grossi animali di pezza, e per perfezionare l'illusione che stava creando -se non per altri, per se stesso- domandò ansioso al commesso del negozio di giocattoli se “la vernice della papera rosa non potesse venir via se il bimbo se la metteva in bocca”. Ma nonostante tutti gli sforzi del padre, Benjamin si rifiutava di lasciarsi interessare. Sgattaiolava giù dalle scale di servizio e se ne tornava nella nursery con un volume dell'Enciclopedia Britannica, sul quale avrebbe passato tutto un pomeriggio mentre la mucca di pezza e l'Arca di Noè giacevano abbandonati sul pavimento. Contro tanta cocciutaggine gli sforzi di Mr Button avevano pochi risultati.
All'inizio lo scalpore creato a Baltimora fu straordinario. Non si può stabilire quanto quella disgrazia pesasse sulla vita sociale dei Button e dei loro parenti, perché lo scoppio della Guerra Civile attirò l'attenzione della città su altre cose. Alcune persone, di quelle costantemente educate, si lambiccarono il cervello per trovare qualche complimento da fare ai genitori; e finalmente scoprirono lo stratagemma ingegnoso di dire che il bimbo somigliava a suo nonno, un fatto che, grazie al normale stato di decadimento che accomuna tutti i settantenni, non si poteva negare. Il signor e la signora Roger Button non ne furono contenti e il nonno di Benjamin si sentì pesantemente offeso.
Una volta lasciato l'ospedale, Benjamin prese la vita così come la trovò. Gli portarono a trovarlo diversi bambini e lui trascorse un intero pomeriggio con le giunture rigide a cercare di farsi nascere un interesse per trottole e biglie; riuscì perfino, quasi per caso, a rompere la finestra della cucina con un sasso lanciato da una fionda, cosa che segretamente rallegrò suo padre.
Da allora in poi Benjamin cercò di rompere qualcosa ogni giorno, ma lo faceva solo perché ci si aspettava che lo facesse, e perché era premuroso di natura.
Quando l'antagonismo iniziale di suo nonno scomparve, Benjamin e quel gentiluomo scoprirono di provare un immenso piacere nella reciproca compagnia. Sedevano insieme per ore, quei due tanto distanti tra loro per età ed esperienza, e come vecchi amici discutevano con instancabile monotonia dei lenti eventi della giornata. Benjamin si sentiva molto più a suo agio in compagnia del nonno che dei suoi genitori; questi sembravano sempre un po' intimoriti in sua presenza e, nonostante l'autorità dittatoriale che esercitavano su di lui, spesso si rivolgevano a lui chiamandolo “signore”.
Lui era stupito come tutti gli altri per l'età evidentemente avanzata della sua mente e del suo corpo alla nascita. Cercò informazioni sull'enciclopedia medica, ma non trovò alcun caso simile già riportato. Sotto pressione del padre, faceva sinceri tentativi di giocare con gli altri bambini e spesso si univa a loro nei giochi più tranquilli; il football lo faceva agitare troppo e temeva che se si fosse fratturato qualcosa le sue vecchie ossa si sarebbero rifiutate di rinsaldarsi.
Quando compì cinque anni venne mandato all'asilo, dove venne iniziato all'arte di incollare la carta verde sulla carta arancione, di intessere mappe colorate e di confezionare infinite collane di cartone. Nello svolgere questi compiti aveva la tendenza ad assopirsi, abitudine che irritava e spaventava la sua giovane maestra. Con suo sollievo, questa si lamentò coi suoi genitori e lui fu rimosso dalla scuola. I Roger Button dissero agli amici che avevano capito che era troppo giovane.
Per quando compì dodici anni i suoi genitori si erano ormai abituati a lui. Anzi, tale è la forza dell'abitudine che a loro non sembrava più diverso da qualunque altro bambino; tranne quando qualche curiosa anomalia non ricordava loro il fatto. Ma un giorno, poche settimane dopo il suo dodicesimo compleanno, mentre si guardava allo specchio Benjamin fece, o credette di fare, una scoperta sbalorditiva. Erano i suoi occhi a ingannarlo, o in quei dodici anni di vita i suoi capelli erano passati dal bianco al grigio-ferro sotto la tintura? E il reticolo di rughe sul suo volto non era forse meno pronunciato? La sua pelle non era più sana e tonica, con perfino un tocco di rossore invernale? Non riusciva a capire. Sapeva di non essere più curvo e che dal suo primo giorno di vita le sue condizioni fisiche era migliorate.
“Può essere che...?”, pensò, o meglio, osò a malapena pensare.
Andò da suo padre. “Sono cresciuto”, annunciò deciso, “Voglio mettermi i calzoni lunghi.”
Suo padre esitò. “Mah”, disse infine, “Non lo so. L'età per mettersi i pantaloni lunghi è quattordici anni... e tu ne hai solo dodici.”
“Ma devi pur ammettere”, protestò Benjamin, “che per la mia età sono grande.”
Suo padre lo guardò fingendo di riflettere. “Oh, non ne sono tanto sicuro”, disse, “Anch'io a dodici anni ero grande quanto te.”
Questo non era vero; faceva parte del silenzioso patto che Mr Button aveva fatto con se stesso per credere alla normalità del figlio.
Infine venne raggiunto un compromesso. Benjamin avrebbe continuato a tingersi i capelli. Avrebbe fatto sforzi migliori per giocare coi bambini della sua età. Non avrebbe portato gli occhiali e il bastone da passeggio quando andava in strada. In cambio di queste concessioni gli fu permesso di avere il suo primo paio di calzoni lunghi...

----- Note -----
* Cinque piedi e otto pollici
: poco più di un metro e settanta (NDT)

IV

Ho intenzione di parlare poco della vita di Benjamin Button dal suo dodicesimo al suo ventunesimo compleanno. Basti dire che furono anni di normale decrescita. Quando Benjamin ebbe diciott'anni era dritto come un uomo di cinquanta; aveva più capelli, che adesso erano di un grigio scuro; il passo era saldo e la sua voce aveva perso quel tremolio incerto per scendere a un sano tono baritonale. Perciò suo padre lo mandò nel Connecticut per fargli fare l'esame di ammissione all'Università di Yale. Benjamin superò l'esame e divenne membro della classe delle matricole.
Tre giorni dopo la sua immatricolazione ricevette una notifica da Mr Hart, il conservatore del registro del college, che lo invitava nel suo ufficio per mettere a punto il suo piano di studi. Benjamin, guardandosi allo specchio, decise che i suoi capelli avevano bisogno di una nuova applicazione di tintura marrone, ma una frenetica ispezione dei cassetti della scrivania gli rivelarono che la bottiglia non c'era. Poi ricordò: il giorno prima l'aveva vuotata e l'aveva buttata.
Era in un bel dilemma. Doveva andare per forza nell'ufficio del conservatore entro cinque minuti. Pareva non ci fosse scelta: doveva andarci così com'era. E lo fece.
“Buongiorno”, disse educatamente il conservatore, “Siete venuto per informarvi di vostro figlio?”
“Be', in realtà mi chiamo Button...”, cominciò Benjamin, ma Mr Hart lo interruppe.
“Molto lieto di conoscervi, Mr Button. Attendo qui vostro figlio da un momento all'altro.”
“Sono io!”, esclamò bruscamente Benjamin, “Io sono una matricola.”
“Che cosa?”
“Sono una matricola.”
“State scherzando.”
“Niente affatto.”
Il conservatore si accigliò e diede un'occhiata a un biglietto che aveva davanti. “Qui c'è scritto che Benjamin Button ha diciott'anni.”
“È la mia età”, confermò Benjamin arrossendo appena.
Il conservatore del registro lo guardò stancamente. “Siate serio, Mr Button, non vi aspetterete che vi creda?”
Benjamin sorrise stancamente. “Ho diciott'anni”, ripeté.
Il conservatore indicò severo la porta. “Andate fuori”, disse, “Andate fuori dal college, uscite dalla città. Voi siete un pazzo pericoloso.”
“Ho diciott'anni.”
Mr Hart aprì la porta. “Che idea!”, gridò, “Un uomo della vostra età che cerca di entrare qui come matricola. Ah, voi avreste diciott'anni? Bene, vi concedo diciotto minuti per abbandonare la città.”
Benjamin Button abbandonò dignitosamente la stanza e mezza dozzina di studenti, che attendevano all'ingresso, lo seguirono con occhi curiosi. Quando si fu allontanato di un po' si voltò, guardò in faccia il conservatore, ancora in piedi sulla soglia, e ripeté con voce salda: “Ho diciott'anni.”
E nel coro di risatine che proruppe dal gruppo di studenti, Benjamin si allontanò.
Ma non era destino che se la potesse cavare così facilmente. Durante il suo malinconico viaggio verso la stazione si accorse di essere seguito da un gruppo, poi da una frotta, e infine da una massa compatta di studenti. Si era sparsa la voce che un pazzo aveva superato gli esami di ammissione per Yale e aveva cercato di farsi passare per una matricola di diciott'anni. Un'agitazione eccitata pervase il college. Gli uomini uscirono dalle aule senza cappello, la squadra di football abbandonò gli allenamenti e si unì alla folla, le mogli dei professori con le cuffiette storte e le maniche a sbuffo in disordine corsero gridando dietro la processione, dalla quale proveniva una continua serie di osservazioni indirizzate alla tenera sensibilità di Benjamin Button.
“Dev'essere l'Ebreo Errante!”
“Alla sua età dovrebbe andare alla scuola primaria.”
“Guardate che bambino prodigio!”
“Pensava che questo fosse l'ospizio dei vecchi.”
“Vattene ad Harvard!”
Benjamin allungò il passo e ben presto si mise a correre. Gliel'avrebbe fatta vedere lui! Sarebbe davvero andato ad Harvard e allora si sarebbero pentiti di quegli sgarbati sfottò!
Una volta al sicuro sul treno per Baltimora, tirò la testa fuori dal finestrino. “Ve ne pentirete!”, gridò.
“Ah, ah!”, risero gli studenti, “Ah, ah, ah!”, e questo fu il più grande errore che il College di Yale avesse mai fatto...

V

Nel 1880 Benjamin Button aveva vent'anni e celebrò il compleanno andando a lavorare per suo padre nella Roger Button & Co., Grossisti in Ferramenta. Quello stesso anno cominciò a fare “vita mondana”, vale a dire che suo padre insistette nel portarlo a diversi balli alla moda. Roger Button adesso aveva cinquant'anni e lui e suo figlio andavano sempre più d'accordo; di fatto, dal momento che Benjamin aveva smesso di tingersi i capelli (che erano ancora grigi) sembravano grossomodo della stessa età e potevano passare per fratelli.
Una sera d'agosto montarono sul phaeton abbigliati in abito di gala e andarono a un ballo alla casa di campagna degli Shevlin, situata appena fuori Baltimora. Era una serata magnifica. La luna piena bagnava la strada rendendola di un opaco color platino e l'ultima messe di fiori esalava nell'aria immobile aromi che erano come una risata smorzata e lontana. L'aperta campagna, ammantata per miglia attorno di grano lucente, era luminosa come di giorno. Era quasi impossibile non lasciarsi ammaliare dall'assoluta bellezza del cielo... quasi impossibile!
“C'è un gran futuro nel commercio dell'abbigliamento”, stava dicendo Roger Button. Non era un uomo spirituale e il suo senso estetico era rudimentale.
“I vecchi come me non possono imparare i nuovi trucchi”, osservò, profondo, “Siete voi giovani, con la vostra energia e la vostra vitalità, ad avere il futuro davanti.”
In lontananza, in fondo alla strada, comparvero le luci della casa di campagna degli Shevlin e subito dopo verso di loro strisciò insistente un suono sospiroso, che poteva essere il dolce lamento dei violini oppure il fruscio del grano d'argento sotto la luna.
Si fermarono dietro un bel brum i cui passeggeri stavano scendendo davanti all'ingresso. Uscì una signora, poi un gentiluomo più anziano, poi un'altra giovane signora bella come il peccato. Benjamin sobbalzò. Un cambiamento quasi chimico sembrò dissolvere e ricomporre gli elementi stessi del suo corpo. Si fece rigido, il sangue gli affluì alle gote e alle tempie, nelle orecchie aveva un battito costante. Era il suo primo amore.
La ragazza era esile e delicata, con capelli che sembravano quasi bianchi sotto la luna e color del miele sotto le sfrigolanti lampade a gas del porticato. Sulle spalle aveva gettato una mantilla spagnola giallo pallido decorata con farfalle nere; i suoi piedini erano bottoni scintillanti in fondo all'abito a sbuffo.
Roger Button si chinò sul figlio. “Quella”, disse, “è la giovane Hildegarde Moncrief, figlia del Generale Moncrief.”
Benjamin annuì distaccato. “Graziosa”, disse indifferente. Ma quando il servitore negro ebbe portato via il calesse, aggiunse: “Papà, potresti presentarmela?”
Si avvicinarono a un gruppo al centro del quale c'era Miss Moncrief. Allevata con le vecchie usanze, ella fece a Benjamin una profonda riverenza. Sì, poteva concedergli un ballo. Lui la ringraziò e si allontanò... barcollando.
L'intervallo di tempo che trascorse da quel momento all'arrivo del suo turno si trascinò interminabile. Lui se ne rimase accanto al muro, silenzioso, imperscrutabile, a guardare con occhi omicidi i giovanotti di Baltimora che turbinavano attorno a Hildegarde Moncrief coi volti colmi di fervente ammirazione. Quanto parevano odiosi a Benjamin, com'erano insopportabilmente rosei! I loro baffi castani e arricciati suscitavano in lui una sensazione analoga all'indigestione.
Ma quando arrivò il suo turno e lui raggiunse con lei la pista da ballo che dava il cambio alla musica dell'ultimo valzer proveniente da Parigi, le sue gelosie e le sue ansietà si dissolsero in lui come uno strato di neve. Abbagliato dall'ammirazione, sentì che la sua vita stava appena cominciando.
“Voi e vostro fratello siete arrivati qui quando siamo arrivati noi, vero?”, domandò Hildegarde guardandolo con occhi che parevano fatti di splendente smalto azzurro.
Benjamin esitò. Se lei l'aveva scambiato per il fratello di suo padre avrebbe fatto bene a chiarirle le idee? Ricordò la sua esperienza a Yale, perciò decise di non farlo. Sarebbe stato scortese contraddire una signora; sarebbe stato da criminali guastare quella deliziosa occasione con la grottesca storia delle sue origini. Più tardi, forse, gliel'avrebbe detto. Quindi annuì, sorrise, ascoltò, fu felice.
“Mi piacciono gli uomini della vostra età”, gli disse Hildegarde, “I ragazzi sono così stupidi. Non fanno che parlare di quanto champagne bevono al college e quanti soldi perdono giocando a carte. Gli uomini della vostra età sanno come apprezzare una donna.”
Benjamin si sentì sul punto di farle una proposta di matrimonio; con uno sforzo represse quell'impulso. “La vostra è proprio un'età romantica”, continuò lei, “”Cinquanta. A venticinque sono troppo mondani; a trenta tendono a essere pallidi per il troppo lavoro; quarant'anni è l'età delle lunghe storie che a raccontarle prendono un sigaro intero; sessanta... oh, no, i sessanta sono troppo vicini ai settanta; ma cinquanta è proprio l'età matura. Amo i cinquant'anni.”
A Benjamin cinquant'anni sembrarono un'età meravigliosa. Desiderò ardentemente di avere cinquant'anni.
“Io l'ho sempre detto”, proseguì Hildegarde, “che preferisco sposare un uomo di cinquant'anni e farmi accudire da lui piuttosto che uno di trenta che devo accudire io.”
Per Benjamin il resto della serata fu immerso in un'atmosfera color del miele. Hildegarde gli concesse altri due balli e i due scoprirono di andare straordinariamente d'accordo su tutte le questioni all'ordine del giorno. La domenica seguente lei sarebbe uscita a passeggio con lui, così avrebbero conversato ulteriormente su quelle faccende.
Mentre tornava a casa sul phaeton giusto prima dell'alba, quando le prime api ronzavano e la luna andava svanendo scintillando nella fredda rugiada, Benjamin aveva solo la vaga consapevolezza che suo padre stesse parlando di ferramenta all'ingrosso.
“...e cosa credi che richieda di più la nostra attenzione, dopo i martelli e i chiodi?”, stava dicendo il Button più anziano.
“L'amore”, rispose distratto Benjamin.
“La morsa?”, esclamò Roger Button, “Ma ho già detto tutto delle morse.”
Benjamin lo guardò con occhi sognanti, proprio mentre a est il cielo veniva squarciato dalla luce e
un rigogolo sbadigliava lacerante tra gli alberi che si destavano...

VI

Quando sei mesi più tardi il fidanzamento tra Miss Hildegarde Moncrief e Mr Benjamin Button venne reso noto (dico “reso noto” perché il Generale Moncrief disse che avrebbe preferito morire trafitto dalla sua stessa spada piuttosto che annunciarlo ufficialmente), l'eccitazione nella comunità di Baltimora crebbe fino a un apice convulso. L'ormai quasi dimenticata storia della nascita di Benjamin venne ricordata e diffusa sulle ali dello scandalo in forme picaresche e incredibili. Dissero che Benjamin era in realtà il padre di Roger Button, che invece era suo fratello rimasto in prigione per quarant'anni, che era John Wilkes Booth* travestito, e infine che aveva due piccole corna coniche che gli spuntavano dalla testa.
I supplementi domenicali dei quotidiani di New York gonfiarono il caso con vignette affascinanti che ritraevano la testa di Benjamin Button attaccata a un pesce, a un serpente e perfino a un corpo d'ottone massiccio. Divenne noto, giornalisticamente parlando, come l'Uomo Misterioso del Maryland. Ma la vera storia, come capita solitamente, ebbe scarsissima circolazione.
A ogni modo tutti furono d'accordo col Generale Moncrief nel definire “un delitto” il fatto che una splendida ragazza, che poteva sposare qualunque bel ragazzo di Baltimora, si buttasse tra le braccia di un uomo che aveva sicuramente cinquant'anni. Inutilmente Mr Roger Button pubblicò il certificato di nascita del figlio a grandi caratteri sul Baltimora Blaze. Nessuno gli credette. Bastava guardare Benjamin per capirlo.
Da parte dei due più coinvolti non ci furono tentennamenti. Erano così tante le false storie sul suo fidanzato, che Hildegarde rifiutò ostinatamente di credere perfino a quella vera. Invano il Generale Moncrief le sottolineò l'alto tasso di mortalità esistente tra gli uomini di cinquant'anni... o perlomeno tra gli uomini che dimostravano cinquant'anni. Invano le parlò dell'instabilità finanziaria della ferramenta all'ingrosso. Hildegarde aveva deciso di sposarsi per maturità, e si sposò...

----- Note -----
* John Wilkes Booth
: l'uomo che uccise il presidente Lincoln nel 1865 (NDR)

VII

Gli amici di Hildegarde Moncrief si sbagliarono almeno su un particolare. Il mercato della ferramenta all'ingrosso prosperò in maniera strabiliante. Nei quindici anni che passarono tra il matrimonio di Benjamin Button, nel 1880, e l'abbandono dell'attività da parte di suo padre, nel 1895, le ricchezze di famiglia vennero raddoppiate, e questo era ampiamente dovuto al più giovane membro dell'azienda.
Inutile dire che alla fine Baltimora accolse sul proprio cuore quella coppia. Perfino il vecchio Generale Moncrief fece pace col genero quando Benjamin gli diede i soldi per far pubblicare la sua “Storia della Guerra Civile” in venti volumi, che era stata rifiutata da nove importanti editori.
In Benjamin quindici anni avevano portato molti cambiamenti. Gli sembrava che il sangue gli scorresse nelle vene con vigore crescente. Cominciava a essere un piacere svegliarsi al mattino, camminare con passo energico tra le strade affaccendate e assolate, lavorare instancabilmente con i suoi carichi di martelli e i suoi cargo di chiodi. Fu nel 1890 che fece la sua famosa impresa commerciale: portò avanti la proposta di considerare proprietà del destinatario tutti i chiodi usati per chiudere le casse contenenti i chiodi spediti, una proposta che divenne statuto, fu approvata dal Presidente della Corte Suprema, Fossile, e fece risparmiare alla Roger Button & Co., Grossisti in Ferramenta, più di seicento chiodi all'anno.
Inoltre Benjamin scoprì di sentirsi sempre più attratto dal lato gioioso della vita. Fu un esempio tipico del suo crescente entusiasmo per il piacere che lui fosse il primo uomo in tutta Baltimora a possedere e guidare un'automobile. Quando lo incontravano per strada i suoi coetanei invidiavano l'immagine di salute e vitalità che offriva.
“Sembra ringiovanire di anno in anno”, notavano. E se il vecchio Roger Button, che ora aveva sessantacinque anni, non era riuscito fin da subito a dare a suo figlio un degno benvenuto, alla fine riuscì a fare ammenda riversando su di lui l'equivalente in adulazione.
E qui arriviamo a un argomento spiacevole che sarà bene affrontare il più rapidamente possibile. C'era solo una cosa che preoccupava Benjamin Button: sua moglie aveva smesso di sembrargli attraente.
All'epoca Hildegarde era una donna di trentacinque anni e aveva un figlio, Roscoe, di quattordici anni. Nei primi tempi del loro matrimonio Benjamin l'aveva adorata. Ma come gli anni passavano i suoi capelli color del miele si facevano di uno squallido marrone, lo smalto azzurro dei suoi occhi pareva quello delle stoviglie economiche; inoltre, e soprattutto, lei aveva assunto modi troppo tranquilli, era troppo placida, troppo soddisfatta, troppo anemica nelle sue emozioni e troppo sobria nei gusti. Da sposa era sempre stata lei a “trascinare” Benjamin a balli e cene; ora le cose si erano ribaltate. Lei usciva volentieri con lui, ma senza entusiasmo, già divorata da quell'inerzia eterna che viene un giorno a vivere da noi e poi resta con noi per sempre.
Il malumore di Benjamin cresceva sempre più. Allo scoppio della Guerra Ispano-Americana del 1898 casa sua aveva per lui così poche attrattive che decise di unirsi all'esercito. Con le conoscenze che aveva negli affari ottenne una delega da capitano e si dimostrò così adattabile che venne fatto maggiore, e poi tenente colonnello appena in tempo per partecipare alla celebre carica alla Collina di San Juan. Venne ferito in modo lieve e ricevette una medaglia.
Benjamin si era così attaccato all'attività e all'eccitazione della vita militare che gli dispiacque lasciarla, ma gli affari reclamavano la sua attenzione, perciò rassegnò le dimissioni e tornò a casa. In stazione venne accolto dalla banda di ottoni che lo scortò a casa...

VIII

Hildegarde, agitando una grande bandiera di seta, lo accolse sul porticato e anche se la baciò lui si accorse, col cuore che gli veniva meno, che quei tre anni si erano presi il loro tributo. Lei adesso era una donna di quarant'anni con una leggera e contrastante linea di capelli grigi in testa. Questa vista lo fece sentire depresso.
In camera sua, guardò il suo riflesso nel solito specchio... si avvicinò e si osservò il volto ansiosamente, confrontandolo continuamente con la foto in uniforme che gli era stata scattata prima della guerra.
“Buon Dio!”, disse ad alta voce. Il processo continuava. Non c'erano dubbi: ora sembrava un uomo di trent'anni. Invece di esserne felice, si sentì a disagio. Stava ringiovanendo. Fino ad allora aveva sperato che una volta che il suo corpo avesse raggiunto un'età corrispondente a quella degli anni, quel grottesco fenomeno che aveva segnato la sua nascita avrebbe smesso di funzionare. Rabbrividì. Il suo destino gli sembrava orrendo, incredibile.
Quando scese di sotto Hildegarde lo stava aspettando. Sembrava seccata, lui si chiese se lei si fosse finalmente accorta che c'era qualcosa di sbagliato. Per alleviare la tensione tra loro fece uno sforzo e a cena sollevò l'argomento in quello che gli parve un modo delicato.
“Lo sai?”, disse spensierato, “Dicono tutti che sembro più giovane che mai.”
Hildegarde lo guardò con disprezzo. Sbuffò. “Ti sembra una cosa di cui vantarsi?”
“Non mi sto vantando”, affermò lui, a disagio.
Lei sbuffò di nuovo. “Che idea!”, disse, e poi: “Pensavo che avessi abbastanza orgoglio da smettere.”
“E come faccio?”, domandò lui.
“Non voglio litigare con te”, ribatté lei, “Ma c'è un modo giusto di fare le cose e uno sbagliato. Se tu hai deciso di essere diverso da tutti gli altri, non credo di potertelo impedire, ma penso davvero che non sia una cosa molto premurosa da parte tua.”
“Ma Hildegarde, io non posso farci niente.”
“Sì che puoi. Sei solo cocciuto. Tu credi di non voler essere come tutti gli altri. Sei sempre stato così, e sempre lo sarai. Ma pensa solo come sarebbe se tutti la pensassero come te... cosa diventerebbe il mondo?”
Dal momento che questa era un'affermazione insensata a cui non era possibile rispondere, Benjamin non rispose e da quel momento la voragine che c'era tra loro non fece che ampliarsi. Si stupì che lei avesse mai potuto esercitato del fascino su di lui.
Ad allargare quella frattura Benjamin scoprì, con l'arrivo del nuovo secolo, che la sua fame di allegria diventava sempre più forte. In tutta Baltimora non c'era party, di nessun genere, a cui lui non partecipasse; danzava con le giovani donne sposate più graziose, chiacchierava con le debuttanti più popolari e trovava affascinante la loro compagnia. E intanto sua moglie, vecchia signora di malaugurio, sedeva tra le chaperon. Ora che lo disapprovava altezzosamente, ora che lo seguiva con occhi solenni, perplessi e pieni di biasimo.
“Guardate!”, osservava la gente, “Che peccato! Un giovane di quell'età legato a una donna di quarantacinque anni. Deve avere almeno vent'anni meno della moglie.” Avevano dimenticato, poiché è inevitabile che la gente dimentichi, che nel 1880 anche le loro mamme e i loro papà avevano fatto osservazioni su quella coppia male assortita.
La crescente infelicità di Benjamin a casa venne compensata dai suoi molti, nuovi interessi. Cominciò a giocare a golf e ottenne molto successo. Andava matto per il ballo: nel 1906 era un esperto di “Boston” e nel 1908 era considerato un professionista nel “Maxine”, mentre nel 1909 il suo “Castle Walk” era l'invidia di ogni giovanotto in città.
Naturalmente le sue attività mondane interferivano, fino a un certo punto, con gli affari, ma del resto aveva lavorato duramente per venticinque anni alla compagnia di ferramenta all'ingrosso e pensava che ben presto avrebbe potuto passarla al figlio Roscoe, che si era da poco laureato ad Harvard.
Infatti spesso la gente lo confondeva con suo figlio. A Benjamin questo faceva piacere; aveva dimenticato in fretta l'insidiosa paura che l'aveva preso al suo ritorno dalla Guerra Ispano-Americana e cominciò a provare un piacere ingenuo per il suo aspetto. C'era solo un'unica mosca in quel delizioso unguento: odiava apparire in pubblico con la moglie. Hildegarde adesso aveva cinquant'anni e il solo vederla lo faceva sentire ridicolo...

IX

Un giorno di settembre del 1910 -pochi anni dopo che la Roger Button & Co., Grossisti in Ferramenta, era passata al giovane Roscoe Button- un uomo dall'apparente età di vent'anni si iscrisse come matricola all'Università di Harvard a Cambridge. Non fece l'errore di annunciare che non avrebbe mai più compiuto di nuovo cinquant'anni, né accennò al fatto che suo figlio si era laureato in quello stesso istituto dieci anni prima.
Venne ammesso e quasi immediatamente raggiunse una posizione importante nella sua classe, in parte perché sembrava un po' più grande delle altre matricole, la cui età media era di diciott'anni.
Ma i suoi successi furono soprattutto dovuti al fatto che nella partita di football contro Yale lui giocò così bene, con tanta classe e con tale rabbia fredda e priva di rimorso, che segnò sette mete e quattordici gol per Harvard, e a causa sua tutti e undici gli uomini della squadra di Yale dovettero essere portati uno per volta fuori dal campo, in stato di incoscienza. Era l'uomo più celebre del college.
Strano a dirsi, nel suo terzo anno, da junior, non fu più in grado di “fare squadra”. Gli allenatori dissero che aveva perso peso, e ai più attenti tra loro sembrava che non fosse più tanto alto come prima. Non segnò più mete; anzi, venne tenuto nella squadra principalmente con la speranza che la sua vasta fama avrebbe portato terrore e disordine nella squadra di Yale.
Nell'anno da senior non fece più neppure parte della squadra. Era diventato così esile e delicato che un giorno dei fagioli lo scambiarono per una matricola, un incidente che lo umiliò terribilmente. Divenne famoso come una specie di prodigio: un senior che sicuramente non poteva avere più di sedici anni. E spesso si sconvolgeva per quanto fossero materiali i suoi compagni di corso. Gli studi gli sembravano più difficili, sentiva che erano troppo avanzati. Aveva sentito i suoi compagni parlare della St Mida's, la famosa scuola privata nella quale molti di loro si erano preparati per il college, e decise che dopo laureato anche lui sarebbe andato alla St Mida's, dove una vita protetta tra ragazzi della sua stessa stazza gli sarebbe stata più congeniale.
Dopo la laurea, nel 1914, tornò a casa a Baltimora col diploma di Harvard in tasca. Hildegarde ormai si era trasferita in Italia, perciò Benjamin andò a vivere col figlio Roscoe. Ma anche se gli venne dato un sommario benvenuto, era ovvio che non c'era cordialità nei sentimenti di Roscoe per lui; da parte del figlio era perfino percepibile la tendenza a pensare che Benjamin, che gironzolava per casa con svagatezza adolescenziale, fosse d'intralcio. Ora Roscoe era sposato e aveva un posto di rilievo nella società di Baltimora, e non voleva che venissero fuori scandali connessi alla sua famiglia.
Benjamin, che non era più persona grata tra le debuttanti e i più giovani studenti del college, si ritrovò molto solo, tranne che per la compagnia di tre o quattro ragazzi di quattordici o quindici anni del vicinato. Gli tornò in mente l'idea di andare alla St Mida's.
“Ascolta”, disse un giorno a Roscoe, “Ti ho già detto tante volte che voglio andare alla scuola preparatoria.”
“E allora vacci”, tagliò corto Roscoe, l'argomento gli era sgradito e desiderava evitare una discussione.
“Non posso andarci da solo”, disse Benjamin inerme, “Tu mi ci devi iscrivere e portare.”
“Non ho tempo”, affermò bruscamente Roscoe. Strinse gli occhi, guardò suo padre sentendosi a disagio, “A dirla tutta”, aggiunse, “faresti meglio a smetterla con questa faccenda. Dovresti piantarla subito. Dovresti... dovresti...”, si fermò, e il volto gli si fece paonazzo mentre cercava le parole, “Dovresti cambiare tutto e ricominciare nel verso giusto. Questo scherzo sta andando troppo in là. Non è più divertente. Tu... tu devi comportarti bene!”
Benjamin lo guardò, sull'orlo delle lacrime.
“Un'altra cosa”, continuò Roscoe, “quando in casa ci sono ospiti voglio che mi chiami 'zio'... non 'Roscoe', ma 'zio'. Capito? È assurdo che un ragazzo di quindici anni mi chiami per nome. Forse è meglio se mi chiami sempre 'zio', così ti ci abitui.”
Dopo aver lanciato uno sguardo severo a suo padre, Roscoe si allontanò...

X

Alla fine di questa discussione, Benjamin salì tristemente al piano di sopra e si guardò allo specchio. Non si radeva da tre mesi, ma sul suo volto non trovò altro che una soffice peluria bianca che non pareva necessario toccare. All'inizio, al suo ritorno da Harvard, Roscoe gli aveva anche proposto di portare occhiali e baffi finti incollati alle guance, e per un momento pareva che la farsa dei suoi primi anni si sarebbe ripetuta. Ma i baffi pizzicavano e lui si vergognava di portarli. Si mise a piangere e Roscoe, con riluttanza, cedette.
Benjamin aprì un libro di storie per ragazzi, “I Boy Scout di Bimini Bay”, e cominciò a leggere. Ma si ritrovò a pensare insistentemente alla guerra. Il mese precedente l'America si era unita alla causa degli Alleati e Benjamin voleva arruolarsi ma, ahimè!, sedici anni era l'età minima e lui non sembrava tanto grande. La sua vera età, che era di cinquantasei anni, l'avrebbe comunque tagliato fuori.
Bussarono alla porta e apparve il maggiordomo con una lettera che portava in un angolo una grande iscrizione ufficiale ed era indirizzata a Mr Benjamin Button. Benjamin l'aprì ansioso e ne lesse con gioia il contenuto. Questo lo informava che molti ufficiali di riserva che avevano servito nella Guerra Ispano-Americana erano stati richiamati in servizio con un grado più alto e la busta conteneva la sua promozione a generale di brigata nell'esercito degli Stati Uniti con l'ordine di presentarsi immediatamente a rapporto.
Benjamin balzò in piedi tremando letteralmente dall'entusiasmo. Era questo quello che voleva. Afferrò il berretto e dieci minuti dopo entrò in una grande sartoria di Charles Street e chiese con la sua incerta voce bianca che gli prendessero le misure per un'uniforme.
“Vuoi giocare al soldato, figliolo?”, domandò con superficialità il commesso.
Benjamin avvampò. “Ma no! Lasciate stare cosa voglio!”, ribatté arrabbiato, “Mi chiamo Button e vivo a Mt Vernon Place, perciò sappiate che posso pagarla.”
“Be'”, ammise esitante il commesso, “se non puoi farlo tu scommetto che può farlo tuo padre, d'accordo.”
A Benjamin presero le misure e una settimana dopo la sua uniforme venne ultimata. Ebbe difficoltà nell'ottenere le giuste insegne da generale perché il commesso continuava a insistere che un distintivo da VWCA* sarebbe stato uguale e sarebbe stato molto più divertente per giocarci.
Senza dire nulla a Roscoe, una notte scappò di casa e andò in treno a Camp Mosby, nel Sud Carolina, dove avrebbe dovuto comandare una brigata di fanteria. Un afoso giorno di aprile si avvicinò all'ingresso del campo, pagò il taxi che l'aveva portato lì dalla stazione e si rivolse alla sentinella di guardia.
“Trovate qualcuno che si occupi dei miei bagagli!”, disse risoluto.
La sentinella gli lanciò uno sguardo di biasimo. “Ehi”, esclamò, “Ragazzino, dove credi di andare con quel travestimento da generale?”
Benjamin, veterano della Guerra Ispano-Americana, puntò su di lui uno sguardo di fuoco ma, ahimè, con una voce mutevole e in falsetto.
“Mettetevi sull'attenti!, cercò di tuonare; si fermò a prendere fiato... e improvvisamente vide che la sentinella fece battere i tacchi e portò il fucile sull'attenti. Benjamin nascose un sorriso compiaciuto, ma quando si guardò attorno il suo sorriso svanì. Non era stato lui a ispirare ubbidienza, ma un imponente colonnello d'artiglieria che si stava avvicinando a cavallo.
“Colonnello!”, chiamò Benjamin con voce acuta.
Il colonnello si avvicinò, tirò le redini, e lo guardò impassibile ma con un guizzo divertito negli occhi. “Tu sei il figlioletto di chi?”, domandò con gentilezza.
“Ve lo faccio vedere io che accidenti di figlioletto sono!”, ribatté Benjamin con violenza, “Smontate subito da quel cavallo!”
Il colonnello scoppiò a ridere.
“Lo vuoi tu, eh, generale?”
“Ecco!”, esclamò disperato Benjamin, “Leggete qui”, e lanciò al colonnello la sua lettera di promozione.
Il colonnello la lesse con gli occhi fuori dalle orbite.
“Dove l'hai preso?”, domandò infilandosi in tasca il documento.
“L'ho ricevuto dal Governo, come scoprirete presto!”
“Tu, vieni con me”, disse il colonnello con una strana espressione, “Ne discuteremo al quartier generale. Vieni.”
Il colonnello si voltò e diresse il cavallo verso il quartier generale. A Benjamin non rimase altro da fare se non seguirlo con quanta più dignità possibile... e intanto si riprometteva un'aspra vendetta.
Ma la sua vendetta non si concretizzò. Però, due giorni dopo, suo figlio Roscoe si concretizzò da Baltimora, furibondo e nervoso per il viaggio improvviso, e scortò il generale, in lacrime e senza uniforme, di nuovo a casa.

----- Note -----
*VWCA:
potrebbe essere Virginia Water Community Association, vale a dire qualcosa che non ha nulla a che vedere con quanto richiesto da Benjamin (NDR)

XI

Nel 1920 nacque il primo figlio di Roscoe Button. Però, durante le feste conseguenti, nessuno pensò che fosse “la cosa giusta” da menzionare il fatto che quel bambino sudicio dall'apparente età di dieci anni che girava per casa e giocava coi soldatini di piombo e con un circo in miniatura fosse il nonno del neonato.
Nessuno provava antipatia per quel bambino, il cui volto fresco e allegro era attraversato da un'impercettibile vena malinconica, ma per Roscoe Button la sua presenza era fonte di tormento. Per usare un idioma della sua generazione, Roscoe non considerava la questione “efficiente”. Secondo lui suo padre nel rifiutarsi di sembrare un sessantenne non si stava comportando “da vero uomo virile” -era questa l'espressione preferita di Roscoe- bensì in maniera confusa e perversa. Anzi, anche solo pensare per mezz'ora a questa faccenda lo portava sull'orlo della follia. Roscoe credeva che lo “spirito vitale” dovesse restare giovane, ma portare la faccenda a un tale livello era... era... era inefficiente. E lì Roscoe si rilassava.
Cinque anni dopo il bambino di Roscoe era cresciuto abbastanza da poter fare giochi infantili con Benjamin sotto la supervisione della stessa bambinaia. Roscoe li portò entrambi all'asilo lo stesso giorno e Benjamin scoprì che fare striscioline di carta colorata, fabbricare tappetini e catenine e disegni curiosi e belli, era il gioco più affascinante del mondo. Una volta fece il cattivo e dovette rimanere in un angolo, e allora si mise a piangere; ma per lo più passava ore spensierate in quella stanza allegra, con la luce del sole che entrava dalle finestre e la mano dolce di Miss Bailey che di tanto in tanto gli si posava sui capelli arruffati.
Dopo un anno il figlio di Roscoe andò in prima elementare, ma Benjamin rimase all'asilo. Era molto felice. Certe volte, quando gli altri bimbetti parlavano di quello che avrebbero fatto da grandi, un'ombra gli attraversava il visino come se in modo oscuro e infantile comprendesse che quelle erano cose in cui lui non avrebbe mai avuto parte.
I giorni passavano con beatitudine monotona. Tornò all'asilo per un terzo anno, ma adesso era troppo piccolo per capire a che servivano quelle vivaci strisce di carta. Piangeva perché gli altri bambini erano più grandi di lui e gli facevano paura. La maestra gli parlava, ma anche se lui tentava  di capirla, non riusciva affatto a capirla.
Venne tolto dall'asilo. La bambinaia, Nana, col suo vestito inamidato di tessuto a quadretti, divenne il centro del suo piccolo mondo. Nelle belle giornate passeggiavano nel parco; Nana indicava col dito un grande mostro grigio e diceva “elefante”, e Benjamin lo ripeteva, e quando la sera lo spogliavano per metterlo a letto lui continuava a ripeterle ad alta voce “Elifante, elifante, elifante”. Certe volte Nana lo lasciava saltare sul letto, cosa molto divertente perché se ti sedevi esattamente dritto il letto ti faceva rimbalzare di nuovo in piedi, e se dicevi “Ah!” per tanto tempo mentre saltavi ottenevi un bellissimo effetto vocale spezzato.
Gli piaceva prendere un grande bastone dall'attaccapanni e andarsene in giro a colpire sedie e tavoli dicendo “Picchia, picchia, picchia”. Quando c'erano ospiti le signore anziane gli parlavano con voce chioccia, cosa che lo interessava, e quelle giovani cercavano di baciarlo, cosa alla quale si sottometteva con vaga noia. E quando alle cinque del pomeriggio la lunga giornata finiva, lui andava di sopra con Nana che gli dava da mangiare la farinata d'avena e altre belle pappe molli imboccandolo con un cucchiaio.
Il suo sonno infantile non era turbato da memorie fastidiose; non c'erano ricordi dei suoi giorni spavaldi al college né degli anni splendenti in cui faceva battere il cuore a tante ragazze. C'erano solo le pareti bianche e sicure della sua culla e Nana, e un uomo che ogni tanto andava a vederlo, e una grande palla arancione che Nana indicava proprio prima di metterlo a letto, al tramonto, e chiamava “sole”. Quando il sole se ne andava i suoi occhi si chiudevano per il sonno... non c'erano sogni, non c'erano sogni a perseguitarlo.
Il passato... quella carica selvaggia alla testa dei suoi uomini sulla Collina di San Juan; i primi anni di matrimonio, quando d'estate, nell'operosa città, lavorava fino al crepuscolo per la giovane Hildegarde, che lui amava; i giorni prima di quelli, quando sedeva a fumare fino a tarda notte nella vecchia e cupa casa dei Button di Monroe Street assieme al nonno... tutto questo era svanito dalla sua mente come sogni inconsistenti, come se non fosse mai accaduto nulla. Lui non ricordava.
Non ricordava chiaramente se il latte fosse caldo o freddo durante l'ultimo pasto, né com'era trascorsa la giornata; c'erano solo la sua culla e la familiare presenza di Nana. E poi non ricordò più niente. Quando aveva fame piangeva, tutto qui. Di giorno e di notte respirava e sopra di lui c'erano sussurri e mormorii che a malapena udiva, e odori debolmente diversi tra loro, e luce e buio.
Poi fu tutto buio, e la sua culla bianca, e le facce indistinte che si muovevano sopra di lui, e il dolce aroma del latte, tutto scomparve completamente dalla sua mente.

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